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Long COVID, la chiave è nelle immunoglobuline?

25 Gennaio 2022

Immunologi zurighesi hanno scoperto i segnali nel sangue dei pazienti malati di coronavirus che potrebbero predire anticipatamente lo sviluppo degli effetti a lungo termine dell’infezione – Questo «apre la porta a trattamenti mirati»

Immunologi zurighesi hanno scoperto i segnali nel sangue dei pazienti malati di coronavirus che potrebbero predire anticipatamente lo sviluppo del cosiddetto Long COVID, ovvero gli effetti a lungo termine dell’infezione. I risultati ottenuti sono stati presentati sulla rivista scientifica «Nature Communications».

Affaticamento, difficoltà respiratorie, deterioramento cognitivo, debolezza muscolare e dolori articolari: quando questi sintomi dopo un contagio perdurano nel tempo, gli esperti chiamano tale condizione Long COVID. Non è ancora stato spiegato adeguatamente come mai alcune persone soffrano di conseguenze a lungo termine dopo aver avuto il coronavirus mentre altre no.

Un team guidato da Onur Boyman, immunologo dell’Università e dell’Ospedale universitario di Zurigo, ha ora analizzato la storia della malattia di 175 soggetti risultati positivi nella prima ondata. Altri 40, senza contatti rilevabili con il SARS-CoV-2, sono invece serviti come gruppo di controllo. Fra coloro che erano leggermente malati, il 54% ha riportato sintomi per oltre quattro settimane, quota che sale all’82% fra chi si è ammalato gravemente.

Sulla base dei dati clinici, diversi fattori sono stati associati al rischio di sviluppare il Long COVID. Questi includono l’età, la gravità della malattia e l’asma allergica. Inoltre, i ricercatori hanno scovato delle «firme» nel sistema immunitario, ossia livelli più bassi di due classi specifiche di anticorpi.

Secondo lo studio, gli anticorpi rilevanti per il Long COVID sono le immunoglobuline M, che giocano un ruolo importante soprattutto all’inizio dell’infezione. I soggetti colpiti da questa patologia hanno anche concentrazioni più basse di immunoglobuline G3, fondamentali per combattere il virus.

Non si tratta di una difesa specifica contro il coronavirus, ma piuttosto di anticorpi diretti contro una vasta gamma di patogeni, ha affermato Boyman all’agenzia Keystone-ATS, aggiungendo che i livelli delle diverse classi mostrano come il corpo affronti in generale le infezioni. I risultati suggeriscono dunque che una delle cause del Long COVID potrebbe essere una risposta immunitaria dell’organismo mal indirizzata.

«Questo apre la porta a trattamenti mirati, come la somministrazione di alcune immunoglobuline» o di farmaci specifici, prosegue Boyman. Tuttavia, puntualizza l’esperto, la migliore protezione contro il Long COVID è chiaramente la vaccinazione, che riduce il rischio di una rapida replicazione virale.

I ricercatori hanno usato quanto emerso dallo studio per elaborare un nuovo modello da impiegare per calcolare il rischio di venire colpiti dal Long COVID. Esso è già stato verificato su un gruppo indipendente di 395 individui positivi al coronavirus ed è ora liberamente disponibile online per i medici, così da testarne l’applicabilità su migliaia di persone con caratteristiche e background diversi.

A seconda degli studi, fra il 10% e il 60% dei pazienti soffrono di conseguenze a lungo termine dopo un’infezione. Una differenza così grande si spiega col fatto che la definizione di Long COVID è piuttosto fluida. Tuttavia, dichiara Boyman, si può dire con certezza che le persone colpite si sentono molto limitate nella loro vita quotidiana.

Fonte: Corriere del Ticino

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