«Troppo oneroso». «Troppo complicato». «Impossibile fare soldi se la concorrenza è quella di Amazon o Zalando». Per anni molti commercianti ticinesi hanno evitato come la peste di investire negli shop online. Ne abbiamo avuto prova per esempio in novembre, quando un nostro cronista chiese – durante un incontro organizzato a Mendrisio dalla Società commercianti – quanti dei presenti disponessero di un sito Internet per vendere la loro merce. Venne guardato male un po’ da tutti – forse anche a ragione – e solo un paio di commercianti alzarono timidamente la mano. Ora però l’emergenza coronavirus ha cambiato le carte in tavola. La forzata chiusura dei negozi ha dato una forte spinta all’e-commerce di carattere locale. Gli abituali clienti vogliono infatti continuare a comprare il vino dalla propria enoteca di fiducia, i fiori dal proprio fioraio, le piante da giardino dal vivaio da cui acquistano da anni. Tanti imprenditori hanno tentato di creare in fretta e furia un catalogo virtuale; unico modo per poter generare ancora un minimo di cifra d’affari. Ma c’è anche chi – magari un po’ obtorto collo e a fondo perso – già prima dell’arrivo della COVID-19 – ci aveva pensato. E ora è praticamente solo e soltanto grazie alla rete se riesce ad arginare un po’ le perdite e a incassare qualcosa. E c’è chi ha avuto successo. In ogni caso chi oggi è stato «costretto» dall’emergenza a investire in questo settore – facendo di necessità virtù – si troverà con uno strumento utile anche in futuro. Ma sarà davvero così? L’impulso «local» dato all’e-commerce dal coronavirus durerà anche in futuro? O accadrà piuttosto il contrario, nel senso che dopo mesi passati in casa il consumatore proverà piacere (dopo «l’abbuffata online») entrando in un vero negozio, parlando con un commesso in carne e ossa e tastando il prodotto in prima persona anziché doverlo scegliere tra i pixel di una fotografia digitale? Ne abbiamo parlato con Paolo Poretti, presidente della Società dei commercianti di Lugano, e con Carlo Coen (suo omologo per il Mendrisiotto).
C’è chi ha avuto successo e chi, potendo vendere online, ha raggiunto (e forse fidelizzato per il futuro) clienti che prima si rivolgevano ad altri. «Certamente – ci conferma Poretti – la situazione di oggi ha cambiato le carte in tavola e si sono aperte delle opportunità che non vanno sottovalutate. Ma non credo sia una soluzione per tutti. Molto dipende dal tipo di negozio e dal tipo di prodotto. È certamente più facile per chi offre merce originale rispetto a chi rivende prodotti di altri». Un punto su cui anche Coen concorda. «Dipende molto da quel che si offre. Nell’abbigliamento (che è il settore in cui lavora, proprio come Poretti, ndr) in questo periodo c’è per esempio stato un crollo di vendite anche online». Anche perché probabilmente si è meno propensi a comprare un vestito. Per chi indossarlo visto che siamo quasi tutti confinati in casa?
Il commercio online, come ci spiegano Poretti e Coen, è anche insidioso. «È difficile gestire la logistica e il magazzino. Poi c’è il ritorno della merce che viene indossata dai clienti ma non comprata. Le grandi società non lo ammettono, ma in questo modo buttano via milioni perché tanti capi rovinati non possono più venir rimessi sul mercato».
«Se il commercio online funzionasse – sottolinea provocatoriamente Poretti – potrei chiudere il mio negozio in città e affittare un capannone da qualche parte, risparmiando sull’affitto». Una provocazione, appunto, perché così facendo le città si svuoterebbero dei loro negozi, della loro vita. «I piccoli commerci – conferma Coen – hanno un’importanza sociale. Ravvivano i quartieri, i paesi». Ma appunto è proprio in questo momento – in cui tutti noi da settimane siamo chiusi in casa («Nella morsa delle nostre mura domestiche», dice Coen) – che magari si apprezzano cose che prima si davano per scontate: un ristorante, un bar, un negozio. «Ma è un po’ sempre così», conferma Poretti. Si apprezzano le cose quando non ci sono più. E dunque c’è fiducia per la riapertura? I clienti torneranno? Si saranno accorti della necessità di sostenere i piccoli negozi? «La grossa incognita – spiega il presidente dei commercianti di Lugano – sarà capire proprio la loro reazione. Non crediamo che all’inizio ci sarà la fila di clienti all’entrata». «E per questioni sanitarie – spiega Coen – è anche giusto che non sia così. La salute deve venire prima di tutto».
L’idea – condivisa da entrambi i nostri interlocutori – è dunque quella di un’apertura graduale. Non tornare di colpo – quando sarà permesso – con gli stessi orari di prima. È una cosa di cui si sta parlando, attraverso la Federcommercio, un po’ in tutto il Ticino. «Se si apre – sottolinea Poretti – ma non si vende si rischia di non aver risolto il problema. Credo sia più logico ripartire con delle fasce orarie diverse rispetto a prima e magari poter ancora usufruire dell’orario ridotto per i dipendenti». E una grossa incognita riguarda il numero di possibili fallimenti. Quanti negozi riusciranno a sopravvivere – nonostante i crediti ponte della Confederazione – a questo periodo di chiusura forzata? È veramente difficile dirlo. «Anche perché in molti – ci spiega Coen – non ritengono giusto doversi indebitare per pagare le spese correnti che comunque, da marzo a quando si potrà effettivamente riaprire, hanno dovuto sostenere».
Fonte: Corriere del Ticino